Un ragazzino a spasso tra la Storia

La storia di oggi è in realtà un salto indietro nel tempo, dove  le piccole avventure di un bambino si intrecciano con le grandi avventure della Storia. Salto nel tempo che ho potuto fare per le norme di chiusura di questo momento, che mi  hanno permesso di rivivere un periodo  indimenticabile della mia vita.

Il palcoscenico di questo racconto sarà in parte Borgo, quartiere storico di Roma,  ed in particolare la Basilica di San Pietro.  Il bambino alto poco più di un metro e con i capelli lunghi sono io.

La mia famiglia è da sempre legata alla Roma Papalina per vari motivi, iniziando dal mio trisnonno Settimio, che era nella Gendarmeria Pontificia. Quel 20 settembre 1870 era di stanza a Porta Pia, durante la breccia. Andato in congedo, al tavolo dell’osteria raccontava “se nun era pe’ er  Papa che ce  diceva de falli entrà,  l’Italiani  stavano ancora fori”.

Passando per  zi’ Cesare, Sanpietrino, ossia uno degli operai acrobati della Basilica. A differenza di oggi, dove tutto si illumina con i  led, anni fa si usavano con parsimonia fiaccole e lanternoni.  Con parsimonia certo, tranne nei giorni di festa. Soprattutto il 29 giugno, San Pietro e Paolo, tutta la Basilica veniva ricoperta di lanterne dalla cima alla base, da questi operai che si calavano con le funi dalla cupola di Michelangelo. L’impatto visivo era incredibile, con queste luci tremolanti che davano vita a tutta la piazza. Questo fino al 1938. Purtroppo mio zio durante uno di questi lavori cadde dalla cupola. Ancora oggi a pensarci mi fa un certo effetto.

Il bisnonno Emilio, invece, era  capo restauratore della Cappella Sistina. Insomma io stesso,  se non mi sentissi intimamente carbonaro e legato alla Repubblica Romana del 1848, sarei in odore di santità.

Tutta questa manfrina  per  farvi capire il perché sia così legato a questa parte di Roma e alla sua storia. Sono cresciuto a Borgo Vittorio 27a, dalla finestra della sala da pranzo vedevo il cuppolone, l’ora  me la dicevano i rintocchi  di San Pietro, e quando si faceva la spesa piccola si calava il cestino dal ballatoio che dava sul cortile. Ogni dieci giorni veniva il vinaio da Velletri che con un tubo di gomma e un soffio, in barba alla 626 a e tutti gli haccp, ci riempiva i fiaschi. Erano gli anni ’80, ma li forse ancora eravamo una decina di anni indietro.

Tutti i giorni, mia zia mi portava in piazza,  ci sedevamo sulle colonne e cominciavo a dar da mangiare ai piccioni. Poi, finito il riso, iniziavo le varie tappe. L’obelisco, le guardie svizzere al portone di bronzo che ormai mi conoscevano, e dato che non si potevano muovere mi strizzavano l’occhio, per salutarmi, fino ad entrare in  Basilica. Dette così sembrano sciocchezze, ma sapete quando è grande la Basilica di San Pietro per uno alto poco più di un metro? Tanto! E la piazza? Tantissimo, ma ero tranquillo, perché ero sicuro che dentro l’abbraccio del colonnato non poteva succedermi nulla.

L’obelisco era uno dei miei posti preferiti. Mi arrampicavo fino sopra la base, e guardavo tutti da lassù. E’ uno dei  tredici obelischi di Roma, portato dall’Egitto per il circo di Nerone che si sorgeva dove ora è San Pietro. E’ l’unico obelisco a Roma a non essere mai caduto.  Quando fu costruita la prima Basilica, quella Costantiniana,  questo si trovava su un suo lato. Ancora oggi si può vedere una lastra che ricorda il suo posizionamento originario.  Sisto V decise di sistemarlo al centro della piazza nel 1586. Un opera difficilissima, per cui furono ingaggiati quasi mille operai, 140 cavalli e numerosi  argani. Data la difficoltà dell’opera, il Papa emanò un editto. Pena di morte per chiunque avesse parlato durante i lavori. E per dare quel  tocco di simpatia, fece montare una forca con due carnefici nella piazza.  Molti degli operai erano marinai, abili con corde e sartiame,  tutto sembrava andare per il meglio, sotto lo sguardo vigile dell’architetto Fontana, quando la salita dell’obelisco di colpo si fermò. Le corde iniziarono a sfaldarsi. Nel silenzio generale si levò un grido “Acqua alle corde!” Era un capitano di nave, un genovese di  nome Bresca. L’architetto ascoltò il consiglio, fece bagnare le corde che si restrinsero e l’opera fu terminata. Chiaramente il Bresca non fu messo a morte, anzi Sisto V gli chiese di esprimere un desiderio. Il capitano chiese di avere il privilegio di fornire al Vaticano le Palme usate per la suddetta domenica. Si dice che ancora oggi il Papa prenda le tradizionali palme dai discendenti del Bresca. Io avrei chiesto una villa al mare…anche due. Che diamine!

Una tradizione ancora  più antica vuole che la palla che adornava la cima contenesse i resti di Giulio Cesare.  Sarà vero? Forse non si saprà mai, ma sappiamo che in basso, più precisamente tra i sanpietrini della piazza, c’e’ il cuore di Nerone.

Non vi posso dire dove e’, ma posso portarvi a vederlo se lo desiderate. Si tratta di un sanpietrino  scolpito a forma di  cuore. Per i ragazzini di Borgo era normale “annà a prende a carci er core de Nerone”.  Varie sono le storie su questo strano sasso. Si dice che l’abbia scolpito una donna in attesa della grazia per il marito condannato a morte, che il Papa non diede mai. Altri dicono che fu fatto da un Garibaldino, durante il discorso di Garibaldi proprio qui in piazza San Pietro prima di lasciare Roma e porre fine all’avventura della Repubblica Romana. Altri affermano sia opera di uno Zuavo annoiato, in attesa dell’ordine di attaccare gli Italiani alle porte di Roma. Ordine che non arrivò mai. La verità è un’altra, ma non posso rivelarvela, le leggende spesso sono più belle della realtà. Scegliete quella che preferite e sarà quelle che racconterete quando porterete qualcuno a vedere il cuore di Nerone.

Ogni tanto andavo da solo in piazza, anche se ero piccolo iniziavo le mie prime avventure!  In una di queste divenni ricco. Ma andiamo con ordine. Nella parte destra del colonnato, vicino agli archi del passetto di Borgo, potete ancora vedere un giornalaio, credo che ormai venda pure le pentole e i ricambi di auto, ma all’epoca vendeva solo giornali italiani e stranieri.

Subito dietro, ormai scomparse, c’erano sei cabine telefoniche, divise in gruppi di due. Spesso andavo li e facevo finta di stare al telefono, con la gente fuori che mi guardava e sorrideva. Parlavo come se ci fosse qualcuno dall’altra parte. Certo era una cosa sciocca, ma dalle cose sciocche si può sempre cavare qualcosa. Un giorno, durante una delle mie telefonate immaginarie, mi andò l’occhio tra la fessura che divideva le due cabine, che erano di poco rialzate da terra. Vedo degli spicci. Mi abbasso. Sono tanti spicci! Cento lire, duecento lire e anche cinquecento lire! Un tesoro. E ne trovo in tutte e sei le cabine. Soldi caduti ai tanti visitatori e lasciati li senza che nessuno se ne sia accorto. Certo mi dovevo sdraiare e rovistare per terra, ma ero ricchissimo. Ogni giorno passavo, e ogni giorno tornavo con le tasche piene. Almeno fino al triste e infausto arrivo delle schede telefoniche. Un volta, mentre stavo raccogliendo la mia paghetta, su un telefono trovai poggiata una bella macchinetta fotografica, con custodia e obbiettivi. La presi e, beata ingenuità, la diedi all’edicolante, dicendo di riconsegnarla al proprietario che sicuramente sarebbe tornato a cercarla.  Tornai a casa fiero della mia buona azione. Quel giorno c’era anche mia madre, mi ricordo che mi ricoprì di insulti e cominciò a caricare le spingarde a sale.

Un po’ per gli insulti un po’ per il sale tornai a mi sedetti  sulle barriere di legno davanti all’edicola. Dopo un po’ arrivò un ragazzo trafelato insieme a due belle signorine. Era tedesco e a gesti e con qualche parola di italiano chiese se qualcuno avesse ritrovato una macchina fotografica al tizio dell’edicola. Questi a malincuore tirò fuori la macchina, e indicandomi gli disse che l’avevo riportata io. Il tedesco si girò, mi prese e mi abbracciò fortissimo,  con le due ragazze che mi guardano sorridenti. Poi tirò fuori il portafogli e mi diede ventimila lire. Tornai a casa fiero di me stesso. Come detto quel giorno c’era anche mia madre,  che mi disse  “chissà quanto valeva quella macchina” e che avevo perso un sacco di soldi, mentre ricominciava a caricare le spingarde a sale. In fondo lo so che faceva così solo perché mi vedeva troppo fessacchiotto e incline alla fiducia verso gli altri. Ma dopo pochi anni passai  al lato oscuro e oggi è fiera di me.

Le giornate passavano,  ognuna con la sua storia. Come le statue dentro e fuori San Pietro, ognuna con la sua storia da raccontare. Ad esempio, sopra il colonnato ci sono 113 statue.  I Romani le chiamavano i bruttoni. Questo perché, dato che sono posto in alto,  sono solo abbozzate, viste da vicino in effetti non sono proprio fatte bene, ma li in alto fanno la loro figura. Entrando invece nella Basilica si possono vedere solo opere d’arte. Ad iniziare dalla prima, nella navata di destra. La Pietà di Michelangelo. L’unica statua che firmò.  Essendo all’epoca giovane, nessuno credeva fosse opera sua. Così, di notte, tornò e aggiunse il suo nome, non solo nella fascia dell’abito della Madonna, ma anche sulla sua mano, le cui piegature del palmo formano una grande M.

Il  capolavoro ora è schermato da un vetro, prima si poteva vedere molto più da vicino ma nel  1972 fu oggetto di un atto vandalico da parte di un geologo australiano, che gridando “io sono Gesù Cristo risorto dai morti” colpì l’opera per quindici volte con un martello, prima di essere bloccato. La statua ebbe numerosi danni, si staccò un braccio, parte del viso della Vergine e altro ancora. Per il restauro si utilizzarono quasi tutti pezzi originali, ed oggi è li protetta da un vetro antiproiettile.  Questo la dice lunga sul genere umano. Ma vi voglio far vedere un’altra cosa, questa non la conosce nessuno.  Come la storia dei Re di Roma che vi ho raccontato in Nocturno Bus, anche questa la potrete usare per far colpo su qualche donzella, o donzello, o gazzella… insomma su chi volete voi. In alto sopra La Pietà, sono dipinti degli angeli che reggono una croce. Provate a guardarli mettendovi a destra. Loro insieme alla croce andranno verso destra. Ora mettetevi  al centro,  o a sinistra, gli angeli e la croce vi seguiranno.

Sembra nulla, ma provate a farlo vedere a un bambino di trenta anni fa. Per me era magia. E a farmi conoscere questo  e altri segreti magnifici fu un ex commilitone di mio nonno. Amedeo Della Valle. Aviatore, prigioniero di guerra, disegnatore e grande raccontatore di storie. A volte capitava che mi portasse a San Pietro, facendomi conoscere tutti questi piccoli misteri. Sempre ben vestito, in giacca, cravatta e cappello, giravamo con la testa all’insù, lui raccontando e io fantasticando.

Ad esempio fu lui a dirmi che dentro San Pietro non ci sono dipinti. Anzi ce n’e’ uno solo, che mi mostrò, ma oggi sinceramente non ricordo dove sia. Tutti quello che vedete nella basilica sono mosaici. Sembra impossibile vero? Invece è così,  ovunque possiate guardare, dalle pale d’altare, alla cupola, alle scritte, sono tutti mosaici, tranne uno…che come detto non ricordo quale sia. Se lo trovate ditemelo!

Solitamente il mio giro iniziava andando a salutare San Pietro. Per salutare intendo toccare il piede della statua in bronzo del santo. Per centinaia di anni fu viva questa usanza, tanto che il piede risulta completamente consumato e lucido. Oggi, chiaramente, grazie ai milioni di persone che girano per il mondo, non è più possibile toccarlo.

La Basilica è talmente grande che le statue e le strutture al suo interno sembrano piccole, finché non ci si avvicina.

Prendiamo ad esempio il baldacchino di Brunelleschi. E’ gigantesco. Nero e solenne si erge sopra la tomba di San Pietro e Paolo. Molte sono le curiosità su  quest’ opera. Ad esempio, per ottenere tutto il bronzo necessario, Papa Urbano VIII non si fece scrupolo di fondere le statue che adornavano il pronao del Pantheon. Per questo, Pasquino, la statua parlante più famosa di Roma, disse “quello che non hanno fatto i barbari, hanno fatto i Barberini” riferendosi al nome della famiglia del pontefice. Alla fine oltre al baldacchino, con quel bronzo, vennero fuori anche ottanta cannoni per Castel Sant’Angelo. Che non si sa mai possono sempre servire.

In una delle quattro colonne, se ci fate caso, potete vedere il rosario del Brunelleschi,  che lui stesso volle fondere in quest’opera. Da piccolo quel monumento tutto nero mi ha sempre fatto un po’ impressione, mi risultava pesante, e poi mi disturbava perché non potevo mettermi sotto la parte centrale della cupola.

Un’altra curiosità che da piccolo mi piaceva tanto, era l’origine del  termine “a uffo” o “a uffa” ossia fare qualcosa senza pagare, in senso dispregiativo.  Questo modo di dire deriva proprio dalla costruzione di San Pietro al posto della vecchia basilica Costantiniana. Tutto quello che veniva usato per costruire la Basilica, i pedaggi per i trasporti, le varie gabelle, erano annullate se il materiale portava la sigla A.U.F. ossia Ad Usum Fabricae, cioè “Da usare nella fabbrica di San Pietro”.  Da auf a uffa il passo è breve, e noi Romani sulle traslitterazioni siamo fenomenali.

Un po’ come dire fare il portoghese.  Anche se in questo caso il Vaticano centra poco.  Questo modo di dire nasce nel 1700. In quel periodo il Portogallo era uno degli stati più ricchi al mondo, e il re Giovanni V, per ingraziarsi lo stato pontificio, tramite la sua ambasciata a Roma, organizzò per lungo tempo feste e banchetti . Costruì perfino il teatro Argentina, a piazza della Torre Argentina, oggi conosciuta più per la colonia felina anziché per il fatto che proprio li fu ucciso Giulio Cesare con 23 coltellate. Comunque, per l’inaugurazione del teatro, Giovanni V ordinò di lasciare entrare senza pagare tutti i cittadini portoghesi.  Dato il successo dell’evento ne ripropose molti altri, sempre con questa regola. Per questo molti romani si finsero lusitani, parlando un goffo portoghese ed entrando a sbafo a numerosi eventi mondani. Probabilmente il re non aveva capito con chi avesse a che fare.  Ma in cambio i Romani lo soprannominarono Giovanni V “er Magnifico”.

Da allora, fare il portoghese significa proprio questo, entrare a sbafo.  Ma quanto è bella sta città?

Ci sono ancora tante storie da raccontare, del Papa con la tomba più misera di tutte, della copertura di una statua dopo una notte di passione, di me che mi intrufolo nella città del Vaticano con vari espedienti e molto altro.

Troppe cose in una sola volta, quindi ora vi devo salutare anche perché qui vige un regime basato sul modello dell’antico Egitto tra Faraone e valorosi guerrieri stranieri  resi schiavi a seguito di guerre. E io non sono il Faraone. Quindi devo fare le cose di casa sennò stasera….in ginocchio sui ceci!

Ma vi aspetto per la seconda parte!

Con la speranza di tenervi sempre un po’ di compagnia.

A presto!

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