On the Road #2

Direi di iniziare da dove avevamo finito. Senza troppi fronzoli.
Affamato e stanco guidavo sulle salite intorno alle mura di Orvieto. Cercavo un parcheggio che fosse idoneo anche perla notte. Mi fermai in una via poco trafficata, illuminata da quei bei lampioni gialli che amo tanto, non come i led bianchi tanto usati a Roma.
Va bene lo so, sto scadendo nel polemico come al solito, sarà la fame…
E va bene! Non è la fame! Sono polemico di mio, ma ho anche fame, quindi parcheggio e vago per i vicoli medioevali alla ricerca di una locanda.
In realtà vagai poco, dato che entrai nel primo locale che incontrai. Non ne ricordo il nome ma il menù fu ottimo. Mangiare da solo al ristorante mi è sempre piaciuto. Sarà quell’aria misteriosa che mi dà rispetto agli altri che sono in compagnia. Non so. Finito di mangiare, presi bastone e cappello, mi avvolsi nel mio mantello nero ed uscì con fare misterioso, dirigendomi verso il mio albergo. Entrai in macchina, abbassando i sedili e tirando fuori il sacco a pelo blu. L’ho comprai ai magazzini Mas il secolo scorso. Mi infilai dentro e mi cambiai, perchè va bene la vita rock, ma sempre con un certo decoro. Come molti di voi sapranno febbraio a Orvieto è freddo come a Krasnojarsk in Siberia, invece come molti di voi non sapranno, il sacco a pelo blu di Mas lo pagai diecimila lire perchè ha lo stesso spessore delle buste della Conad. Quelle del banco frutta non quelle della cassa. Quindi mi rivestì, perchè va bene il decoro ma stavo cominciando a somigliare ad un calippo all’albicocca.
Venne la mezzanotte, e con lei il mio compleanno. E qualcuno di voi sicuramente non mi fece gli auguri. Misi la sveglia alle 5.30 di mattina e mi addormentai conquesto cruccio.


La notte volò via serena e di buon’ora ero pronto a proseguire il mio viaggo, non prima di essere entrato in un bar per farmi le bellezze del mattino. Il decoro prima di tutto. Presi il mio caffè circondato da baldi cacciatori vestiti con vari residuati bellici de poro nonno. Uscendo sperai ardentemente nell’apertura di un varco spazio-temporale che portasse nel bosco da loro frequentato un T-Rex. Affammato. Femmina. In uno di quei giorni.
Sollevato da questa bella eventualità, me ne tornai in macchina, direzione Volterra.
Dato che la strada è lunga, ingannerò il tempo raccontandovi un precedente legato a questo viaggio.
Bene, fate quella nebbiolina tremolante nei vostri pensieri come nei film…dissolvenza…ed eccoci a Roma nel 2008.
Sono seduto nella mia smart insieme alla fotografa con la quale collaboravo quel periodo. Destinazione il manicomio abbandonato della Marcigliana.
Tutt’intorno il verde dei campi, l’azzurro del cielo, il bianco delle margherite e le caprette che ti fanno ciao. Non sapendo esattamente la strada, ci fermiamo in un centro ippico per chiedere informazioni. Il posto è stupendo. Cani, cavalli, bambini che giocano allegramente mentre le loro mamme li guardano. E proprio a due di queste mamme ci rivolgiamo. Si girano sorridenti chiedendo se vogliamo sapere qualcosa del centro, e io sempre sorridendo rispondo di no, ma che stavamo cercando l’ex manicomio della Marcigliana. In una frazione di secondo cambiò tutto. I loro sguardi si fecero angosciati, le voci basse, credo anche il tempo si scurì. Una di loro ci chiese perchè volessimo andare in quel luogo nefasto, mentre l’altra, leggerermente sollevata da terra, con la testa rigirata e la voce roca ripeteva “non andateeee… non andateeee…”.
Cercavo di non darle importanza e continuavo a parlare con l’altra signora, che titubante mi disse la strada. Cercavo di capire le indicazioni, ma l’altra alzandosi sempre di più continuava a ripetere “non andateeee… non andateeee…” facendomi capire poco. Ringraziai, sperando che la mia socia non si fosse lasciata suggestionare. Mi girai e la vedi leggermente sollevata da terra con la testa all’indietro che ripeteva “non andiamoooo… non andiamoooo…”. Ma ormai eravamo vicini, quindi la convinsi non so con quale scusa.
Il manicomio comparve subito dopo una collina, in effetti era inquietante. Molto inquietante. Lei non volle scendere. Assunsi allora un aria alla John Wayne e le dissi con voce profonda – Va bene, resta in macchina, ma se dovesse succedere qualcosa o arrivare qualcuno tu non ti preoccupare per me, metti la prima e va via – Sicuro della stima e dell’amicizia profonda che ci legava. Lei rispose immediatamente – Si si, se vedo qualcosa me ne vado subito.- Capì che dovevo rivedere la mia aria da Jonh Wayne. Andai verso il grande edificio cercando un modo per entrare. Scavalcai un impalcatura e mi ritrovai nel manicomio. Avevo appena cominciato a esplorare, quando squillò il telefono. Era la mia socia. Dovevamo andare via. Veloce tra corridoi abbandonati e scale rotte mi precipitai in macchina. Il buonsenso non mi permette di aggiungere altri particolari del perchè di quella fuga rocambolesca. Nebbiolina tremolante…dissolvenza incrociata… e eccoci di nuovo in macchina sulla via per Volterra. Ma perchè, vi starete chiedendo, ho raccontato questo episodio passato? Perchè, legato all’aneddoto della prima parte sulla casa abbandonata, mi serve per farvi capire che non sono facilmente impressionabile. Spesso mi sono trovato in situazioni e luoghi diciamo particolari, e quasi sempre da solo. E’ importante perchè gli eventi che seguiranno possano essere letti con un metro di giudizio obbiettivo.


Ridendo e ricordando siamo arrivati a Volterra. Splendida città arroccata su una collina dal paesaggio tipicamente toscano. Il tempo è plumbeo, grigio, e tira un forte vento che sibila tutto intorno. Atmosfera perfetta per esplorare un manicomio abbandonato.
Secondo le indicazioni non devo entrare in città, ma girare subito a destra e prendere una strada laterale. La seguo, ma finisce in un parcheggio di mezzi adetti alla raccolta rifiuti. Qualcosa mi deve essere sfuggito. Torno indietro e vedo una stradina seminascosta dalla vegetazione. Lascio la macchina al parcheggio sottostante per non attirare attenzione e risalgo a piedi. Entro nel boschetto e seguo la strada appena visibile. Poi, davanti a me, una sedia a rotelle indurita dal tempo mi da il benvenuto sul viale che porta alla struttura nuova del manicomio. Una parte sempre abbandonata, ma più recente, di quello che è il grande complesso dell’ex manicomio di Volterra.

Cammino. Gli alberi spogli del viale sembrano guardiani in fila, pronti a muoversi dietro di me. Per prudenza faccio un primo giro di ricognizione all’esterno, per essere sicuro di non trovare nessuno dentro. Ci tengo a precisare che all’interno non poteva esserci effettivamente nessuno.
Tutte le entrate erano state sbarrate da spesse reti di tondini metallici. Gli unici accessi sono una finestra semi aperta al pian terreno e uno stretto passaggio nascosto dietro la struttura.

Entro. I corridoi sono immersi nell’oscurità, la poca luce che passa dalla finestre o dalle porte sbarrate rende tutto più tetro. La reception, le scale, le sale, i bagni, tutto è nel più totale abbandono. Quasi tutte le porte interne sono state tolte. Nel buio si vedono vecchi mobili, sedie a rotelle sparse qua e la, attrezzature medicali.

Continuo a camminare, non si sente nulla tranne il rumore dei miei passi che frantumano intonaco e vetri per terra. Sui muri occhi silenziosi sembrano seguirti. Cammino per il piano terra, pensando di lasciare gli altri piani per dopo. Nel buio vedo una porta lontana, sbarrata, che dà sull’esterno. Poi mi giro e vedo solo buio. Ragiono che se dovessi per qualche motivo scappare velocemente, non saprei dove trovare l’uscita. Nella mente mi vedo vagare terminando la mia corsa affannosa in un’altra porta senza sbarrata, e poi un altra e poi un altra ancora. Per sempre. Il fatto di essermi dimenticato la torcia in altri momenti mi avrebbe fatto sorridere, ma non questa volta. Provo a fare qualche scatto, per tentare di rilassarmi.


Cerco di pensare solo a tempi, diaframmi, e inquadrature, per distogliere la mente da strani pensieri. Da quando sono entrato regna uno silenzio ovattato, denso.

Entro in una sala, c’è una leggera luce che passa da una finestra rotta illuminando alcuni arredi e una sedia a rotelle. Può essere una buona foto. Preparo il cavalletto, calcolo i tempi, controllo la scena, metto il dito sul pulsante di scatto, lo sfioro con più forza… e succede. Dietro di me o davanti, non saprei dirlo, un tonfo fortissimo, come una porta sbattuta dalla spinta di dieci uomini. Il sangue si congela. Rimango dritto con gli occhi sbarrati, non so da che parte guardare, instintivamente mi guardo dietro. Nulla. Va bene, mi dico, sarà il vento. Mi preparo nuovamente a scattare, sono chinato sulla macchina, premo leggermente il tasto. Di nuovo un tonfo fortissimo scuote i miei nervi. Stavolta sobbalzo realmente. Lascio la macchina ed esco nel corridoio, mi sono leggermente abituato al buio, ma vedo solo silenzio.


Torno nella stanza. Parlo ad alta voce per farmi coraggio. Cerco di fare appiglio a tutte le mie credenze scientifiche, al mio scetticismo, poi mi ricordo che credo ai fantasmi, agli ufo, ai complotti degli illuminati, alla fatina dei dentini e mezzo me stavano a convince pure i terrapiattisti. Capisco che il training autogeno non fa per me e rimpiango di non essermi portato il sale, il paletto di frasino e tre pallottole d’argento. Passa qualche minuto, chiaramente di silenzio, e torno in me. Per l’ennesima volta mi avvicino alla macchina, stavolta sto fermo, mi guardo attorno, lentamente vado per scattare e SBAM! I nervi mi saltano. La stanza sembrava diventare più piccola, girando su se stessa. L’idea di dover correre via senza trovare l’uscita continuava a martellarmi in testa, nel mentre speravo di sentire ancora quel suono, lo aspettavo con ansia crescente, ma nulla. Il silenzio avvolgeva tutto. Riamango fermo. In piedi. E’ solo il vento, mi dicevo…non c’è vento, mi rispondeva una vocina. Sarà una porta lenta, mi ripetevo…non ci sono porte, rispondeva la vocina. Ora riprovo, dicevo… fa come te pare, io me ne vado in macchina, disse la vocina. Ora ero veramente solo.

Tirando fuori una tono alto e fiero, non alla Jonh Wayne che mi ricordavo non mi veniva bene, dissi – Bene, ora proverò a fare questa foto, se c’e’ qualcuno che non vuole per qualunque motivo, quando sto per scattare faccia di nuovo sbattere la porta e io me ne andrò subito.- Detto questo rimasi fermo. Lasciai passare qualche minuto. E poi ancora altri. Immobile nella semioscurità senza sapere cosa aspettare. Poi, con calma, mi chinai verso la macchina, sistemai l’inquadratura, controllai tutti i valori e poggiai il dito sul pulsante. Ancora qualche secondo. Poi, lentamente, iniziai a premere. Il tonfo forse fu ancora più forte degli altri, deciso, secco, risolutivo. Mi alzai, domandai scusa e me ne andai. A passo svelto cercavo l’uscita, tra i corridoi e le facce sui muri che ridevano al mio passaggio.
Vidi la luce da una fessura, è da dove sono entrato. Nessuna grata. Finalmente fuori. Non mi fermai e non mi girai, continuai a camminare sulle foglie secche del viale, lasciandomi tutto alle spalle.
Ormai ero scosso, ma non potevo tornare indietro così. C’era ancora la parte vecchia, quella più bella e inquietante da vedere.

Si perchè questo luogo era anche ricco di storia.

La struttura principale era del 1887, costruita nello stile austero del tempo. Qui, fino al 1978, anno della chiusura, si intrecciarono le vite di migliaia di persone.
Nel 1900 la direzione fu data a Luigi Scabia, che decise di rivoluzionare l’idea di manicomio. Costruì nuovi padiglioni asimmetrici, per dare l’idea del villaggio, con precise norme di illuminazione e aereazione. Furono progettate strade interne, rotonde, arredi urbani, giardinetti e fu portata l’illuminazione prima a gas e poi elettrica. Nonostante questi accorgimenti moderni, vigea pur sempre un regime carcerario molto rigido.
Almeno fino al 1963, quando alcuni operatori gettarono le basi per un rapporto più umano con gli ospiti della struttura. Vennero purtroppo ostacolati da primari e medici dell’ospedale desiderosi di mantenere intatto il proprio potere. Solo nel 1973 cominciò un reale cambiamento della situazione. Poi, come detto, nel 1978 fu chiuso in seguito alla legge Basaglia. Da allora solo abbandono e silenzio.
Già questo sarebbe potuto bastare per affronatare un viaggio di 300 chilometri.


Ma era un altra la storia che cercavo realmente. La storia di NOF 4.


Oreste Fernando Nannetti, questo il suo vero nome, non ebbe una vita facile, e dopo molte vicissitudini fu internato in questo istituto nel 1958.
Durante la sua degenza scrisse numerose lettere a parenti immaginari firmandosi NOF 4, definendosi astronautico ingegnere minerario, colonnello astrale, scassinatore nucleare, Nannettaicus Meccanicus, Santo della cellula fotoelettrica.
Sosteneva di essere in contatto telepatico con degli alieni, i quali gli narravano di conquiste di mondi, guerre tecnologiche e magie alchemiche.
Fu artefice di un opera incredibile. Usando solamente le fibbie delle cinture della sua divisa, NOF 4 realizzò due graffiti su un muro e su una scala di un padiglione. Uno lungo 102 metri per una media di 20 centimetri di altezza. L’altro per la spettacolare misura di 180 metri per due.
Un insieme di disegni e lettere astratte, inquitanti, forse interpretabili con una chiave di lettura sconosciuta. Dopo la chiusura, un infermiere si rese conto dell’importanza artistica dell’opera, fece fare delle foto e scrisse un libro “N.O.F. 4 il libro della Vita”. Riconobbe a Nannetti due milioni di lire, che non furono graditi. Nannetti fu molto felice invece dell’articolo che comparve sull’Epresso.
Ad oggi NOF 4 è uno dei maggiori esponenti dell’art brut.


Questo era il vero motivo della mia visita in questo luogo sperduto. Volevo trovare i graffiti.
Cercai quindi un modo per entrare nei vecchi padiglioni. Non fu facile ma lo trovai.
L’interno era inquietante e affascinate al tempo stesso. Una struttura che manteneva intatta tutta la durezza del XIX secolo. Uno spettacolo per i miei occhi. Eppure non riusci a entrare. Nulla me lo impediva fisicamente. Continuavo a girare senza entrare nei padiglioni aperti, qualcosa mi teneva fuori. Scattavo foto senza concentrarmi. Il tempo si faceva più cupo. Cominciò a piovere. Mi muovevo svuotato. L’atmosfera era carica di solitudine, si sarebbe potuta toccare solo allungando una mano. Cercavo i graffiti ma ormai non ero più così deciso a trovarli. Mi tornò in mente la leggenda di una scala in marmo che doveva trovarsi li intorno. Si diceva fosse la scala sia per il paradiso che per l’inferno. Speravo di non trovarla. Stavo ancora pensandoci quando girando la vidi di fronte a me. Forse era un segno. O forse no. Ma facciamo di si che oggi abbiamo sfidato l’ignoto anche troppo.


Tornai indietro con la coda tra le gambe. Stavolta avevo avuto paura. Io che tutti i giorni me la rischio con la mia ragazza perchè non butto i pacchi vuoti dei biscotti, avevo avuto paura. Era così, e non ci potevo fare nulla. Uscì dalla stradina, camminai e raggiunsi la macchina. Ero ancora arrabbiato con me stesso, ma una volta entrato dentro sentì una vocina che disse “ce l’hai fatta a tornà! So due ore che ti aspetto” Accesi la macchina, direzione Volterra, avevo fame e un gran bisogno di vedere gente. Mi fermai in un posticino accogliente, familiare, dove ero l’unico cliente. La signora grassoccia in cucina faceva dei grossi sorrisi, così come il signore baffuto dietro il bancone, grandi sorrisi li faceva la bella signorina che serviva ai tavoli e anche il ragazzo rubicondo alla cassa sorrideva, l’unico che non aveva niente da ridere ero io. Mi hanno dato una batosta che neanche stessi da Cannavacciulo a ferragosto. Di Volterra ricorderò il terrore e la bastonata finale. Ve la consiglio se aveste in mente una gitarella fuori porta.
Il viaggio di ritorno fu tranquillo, ripensavo al bosco sacro, alla notte a Orvieto, al manicomio; credevo di aver buttato del tempo, ma più mi avvicinavo a Roma, più capivo che forse avevo una storia ancor più bella da raccontare. Certo con poche foto, ma che trasudavano il mio umore in quel momento.
Da quel giorno ho sempre cercato qualcuno che volesse tornare con me a visitare il manicomio di Volterra, ma finora nessuno si è mai proposto. Peccato, ho anche preparato una maglietta in regalo per il fortunato partecipante. Bianca. Con la scritta sul davanti “PRENDI ME”.
Qui finisce un’altra storia, forse un pò lunga, di Altroquando. Spero di non avervi annoiato. Se vi fosse piaciuta fatemelo sapere, che in questi giorni di quarantena ho bisogno d’affetto….A presto…molto presto…si perchè se interessa, qui a Altroquando avremmo un altra storia…

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