Per un giorno, per uno stramaledettismo giorno

Ci sono giorni della nostra vita legati a migliaia di sconosciuti.
Giorni di cui, a distanza di anni, ricordiamo esattamente dove ci trovavamo.
Se vi chiedessi dove eravate la notte del 9 luglio del 2006 potreste esitare un istante. Ma se vi chiedessi dove eravate la notte della finale dei mondiali del 2006, tifosi o meno, mi rispondereste senza pensarci un attimo.
Tutti voi lo avete impresso nella mente.
Certo, nel pensarlo si può provare gioia o delusione.
Se siete Francesi proverete delusione.
Io grazie a Dio sono Italiano.
E ora vi racconterò dove ero il 9 luglio 2006.

Devo fare solo un piccolo passo indietro, perché molti di voi non ricorderanno come vivevano nel 2006.
In quell’anno di grazia, ancora non eravamo tuttologi incarogniti e mezzi filosofi su facebook. Il social per eccellenza si conosceva ancora poco, e si usava per l’unico scopo sensato e degno per cui era stato creato. Rintracciare ex compagne di classe o antiche amicizie per poterci provare spudoratamente. Purtroppo questa età dell’oro è terminata da quando abbiamo cominciato a fotografare i piatti di pasta con le cozze, le ginocchia al mare e a mettere like alla signora Maria di Ancona che spiega l’acceleratore di particelle di Ginevra. A proposito di fotografare la calamarata di tonno, all’epoca giravamo con due tipi di cellulare, l’indistruttibile Nokia e il fighetto Motorola. Io a fasi alterne li ho avuti entrambi e mi ricordo che le foto erano fondamentalmente dei quadri di Klimt. Il gioco di punta invece era lo Snake. Forse un po’ limitativo certo, ma volete mettere la serenità di non ricevere trilioni di richieste per Candy Crash?
Instagram? Le stories? I filtri? Tik Tok?…no, c’era ancora un po’ di tempo prima che la stupidità prendesse il potere.
Al primo posto in classifica c’era “Svegliarsi la mattina” degli Zero Assoluto. Al secondo “Sei parte di me” degli Zero Assoluto. …e a me è quasi passata la voglia di scrivere questo pezzo. Poi penso che oggi al loro posto c’é “Amore e Capoeira” di quelli che hanno i nomi di due che giocavano con Holly e Benji e allora penso con nostalgia agli Zero Assoluto.
Insomma era un altro mondo. Proiettato a grandi passi verso il declino morale ed economico, ma con ancora un pizzico di gradevolezza da assaporare quando si usciva in strada.
Ed io, quel 2006, lo giravo in lungo e in largo con la mia Ford Fiesta Sx nera. Tamarra come la capezza d’oro sulla canotta e sicura come una botte di rum lanciata dalle cascate del Niagara. E quel 9 luglio la parcheggiai a via San Saba, poco distante dal Circo Massimo, dove avevano allestito uno dei maxi schermi per la finale.
Tutti i miei amici si erano riuniti come sempre per vederla, sorseggiando thè e parlando dell’ultimo libro di Alberto Angela. Io invece mi avviavo con lo zaino verso una nuova storia da raccontare.
Scendo e mi ritrovo sotto al sole di Viale Aventino.
Erano le prime ore del pomeriggio, e già brulicavano le persone. Bandiere tricolori spuntavano un po’ ovunque, mentre piccoli gruppi di persone con la maglia azzurra camminavano in uno stato di calma apparente. Faceva molto caldo, per la gioia dei bar nei dintorni, ed era facile incontrare ragazze in costume da bagno e ragazzi a petto nudo, con la faccia dipinta e la bandiera in mano. Se non fosse stata una finale di calcio, si sarebbe potuto pensare di essere negli attimi precedenti una guerra di antiche tribù. Ma poi le zaffate di fumo delle sigarette speciali ti facevano ricordare di essere proprio lì, a Roma, nello stato di Jamaica.

Svolto sotto il Palazzo della Fao e mi ritrovo davanti al Circo Massimo. Penserete: “chissà che colpo d’occhio”! Nient’affatto! Poche persone mangiavano panini, chiaccheravano, qualcuno giocava a pallone ma nulla di che. Lo stesso maxischermo era molto semplice, mentre al centro del circo svettavano due torri di servizio. Apro lo zaino e prendo l’attrezzatura. Non erano passati neanche sei anni da quando avevamo tradito la fotografia tradizionale per quella ridicola fotografia digitale, (se non avete capito tra le righe: odio il digitale) e la macchina che avevo allora oggi sarebbe inutilizzabile. Comunque sia, mi preparo e scendo verso l’arena. Scatto qualche foto alle persone, tutte molto cordiali e sorridenti. All’epoca non c’era quella pseudopazzia sulla privacy odierna. Oggi quando scatto per strada vengo spesso guardato con sospetto. Ma poi capisco. La decadenza culturale ci ha fatto tornare a credere che se ti fotografo ti rubo l’anima. Che poi, vi dico un segreto, è vero… ma non lo dite a nessuno.

Ma siamo nel 2006, non corro nessun rischio di essere investito da un monopattino, e quindi vado diretto sotto lo schermo. Ci sono le transenne con la security, faccio vedere il mio tesserino e passo senza troppi problemi.
Il caldo aumenta, l’aria è immobile, e sono solo le tre di pomeriggio. Almeno altre cinque ore all’inizio della partita. Dò una rapida occhiata intorno, tutto molto tranquillo. Sfrutto quindi la pendenza del terreno e mi sdraio chiudendo gli occhi.
Quando li riapro è passata un’oretta e tutto è cambiato. Il Circo Massimo è un enorme distesa di bandiere tricolori, il numero delle persone è impressionante. Qualcuno si sente male, altri cantano, tutti cercano un pò d’aria. La Protezione Civile distribuisce bottiglie d’acqua, gradite anche se calde. Alla fine i vigili del fuoco aprono delle manichette e iniziano a innaffiare più persone possibili. E’ una scena surreale, con i fumogeni che rendono tutto ancora più scenografico. Davanti a me vedo scene dantesche, mentre dietro sento forte la voce tranquilla e scherzosa di Marco Mazzocchi che intervista persone.

Mi sta salendo l’adrenalina. Voglio fare delle buone foto, ma l’Italia si sta per giocare la finale mondiale. E contro la Francia. E’ da sciocchi dire “se non segui il calcio non puoi capire”, è una stupida frase fatta che non ha senso e dimostra l’ignoranza di chi la dice. Quindi mi limiterò a dire “SE NON SEGUI IL CALCIO NON PUOI CAPIRE” scritto in maiuscolo.
Come puoi capire un laziale che impreca se fanno un fallo su Totti, o un romanista che esulta se Nesta spazza via un pallone pericoloso? Come si fa a spiegare che ti senti veramente Campione del Mondo, come se quella coppa l’avessi veramente vinta tu. Come si può giustificare la sensazione che per un giorno, uno solo, le preoccupazioni spariscano e tutto si colori di verde bianco e rosso, con al centro un trofeo d’oro con una palla in cima?
Non si può. Ma vi assicuro che è bellissimo.
Guardo la folla davanti a me, mentre il giorno lascia spazio alla notte. L’aria dovrebbe essere più respirabile, invece il respiro si fa corto. I volti diventano seri. Mi divido tra la folla davanti a me e lo schermo alle mie spalle.
Inizia il collegamento con lo stadio.

Nel cielo una stupenda luna piena sembra essere venuta a vedere la finale insieme a noi. E poco importa se splende anche in Germania, quella vera è la nostra che culla Roma e l’Italia intera.
Parte l’inno. Le bandiere prendono vita, la gente canta, urla, si porta le mani sul cuore, si fa in avanti col corpo come se queste voci dovessero arrivare fino a Berlino, a scuotere i tedeschi nelle loro case e i francesi sugli spalti. E ci arrivano. Sento un’energia travolgermi sull’ultima strofa. La gente si abbraccia, qualcuno piange, io scatto foto cantando a squarciagola.
Fischio dell’arbitro. Inizia la partita. Cala il silenzio. L’unica voce che si sente riecheggiare è quella di Marco Civoli, ora tesa, ora bassa, ora veloce a seconda delle azioni di gioco. Cerco i visi, le espressioni, i gesti, da fotografare, mentre quella voce mi dice cosa sta succedendo. Passano solo sette minuti. Rigore per la Francia.
Zidane. Gol

La delusione imprigiona il Circo Massimo. Eppure qualcuno ancora sventola la sua bandiera, qualcuno ancora grida, qualcuno ancora ci crede. E soprattutto ci crede Marco Materazzi, che dodici eterni minuti dopo segna il pareggio.
Un ondata di persone sale verso l’alto, poi si spinge in avanti, come un unico corpo, come a volersi infrangere contro le transenne. I fumogeni bruciano la gola e gli occhi, ma si esulta ugualmente, ci si abbraccia, si torna a sperare.
Quella speranza ce l’aveva ridata Marco Materazzi, un difensore. Avevamo fenomeni in attacco come Toni, Totti, Pirlo, Del Piero, cosa centrava un difensore? Un ragazzo subentrato a un titolare, a quell’Alessandro Nesta che era la sicurezza della nostra difesa, e il cui infortunio aveva fatto gongolare i francesi.

La nostra difesa. Già. Forse qualcuno avrà pensato fossi troppo empatico durante l’Inno Italiano. Allora vi sfoglio un giornale tedesco di quei giorni. Siamo nel 2006, e dopo la vittoria dell’Italia contro la Repubblica Ceca, Der Spiegel, scrive questo: “L’uomo italiano, chiamiamolo Luigi Forello, è una forma di vita parassitaria, non può vivere senza un animale ospite dal quale succhia più che può. Luigi Forello è perennemente impegnato a mostrare il suo bisogno di aiuto. Se non si chiama Luigi, si chiama Andrea o Luca, ma l’atteggiamento non cambia. Il suo obiettivo primario nella vita è l’ostentazione continua di affaticamento e il suo animale ospite preferito è “La Mama”, la sua nutrice tettona che gli lava i calzini e gli cucina ogni giorno la pasta con un bel sugo denso. Quel che è accaduto ieri non è dunque inusuale – chiosa Der Spiegel – Grosso è caduto in area di rigore e sogghignava mentre era ancora in volo. Il non meno viscido Totti ha trasformato il rigore contro l’Australia, poi si è succhiato il pollice. E’ andata come sempre… …così, seppur buoni a nulla, gli italiani arriveranno di nuovo fino alla semifinale. Ma poi, cari Luigi, non sarà sempre domenica. Noi abbiamo ancora un paio di conti aperti dall’ultima vacanza italiana”. Questo scrivevano di noi sui giornali nazionali tedeschi. Tralasciamo il fatto che in semifinale li abbiamo presi a calci in bocca, ma io questo articolo non me lo sono scordato, questo come molti altri. Non giocavamo contro il Brasile o l’Argentina. Erano la Germania e la Francia. Forse qualcuno di voi capirà.
Ma torniamo da Marco Civoli.
Il resto della partita continua tra momenti di esaltazione e paura. Si rimane sul 1 a 1. Si arriva ai supplementari, qui chi segna per primo storicamente vince. C’è paura all’ Olympiastadiom, c’e’ paura al Circo Massimo.
A 10 minuti dalla fine l’evento che verrà ricordato da tutti. Materazzi, sempre lui, insulta Zidane che perde la testa e la ritrova nello stomaco del difensore italiano. Espulsione. Giochiamo gli ultimo 10 minuti in superiorità numerica, ma senza risultato. Si va ai rigori.

Ve l’ho mai detto che sono un tipo scaramantico? Non ne ho visto neanche uno. L’occhio incollato nel mirino sulle facce tese. Sul dischetto va Trezeguet, lo stesso che a sette minuti dalla fine ci aveva tolto la gioia dell’Europeo sei anni prima. E’ forte. E’ freddo. E’ un rigorista. Ma è francese. Tira. Sbaglia. Esulto senza staccare gli occhi dalla macchina fotografica, la tengo con una mano, l’altra festeggia con movimenti inconsulti.

Ultimo rigore. Se segniamo siamo sul tetto del mondo. Ma sul dischetto non va un attaccante, non va Del Piero o Totti. Sul dischetto va Fabio Grosso, un difensore. E i difensori con i piedi solitamente ci hanno litigato. Provate a essere per un attimo Fabio Grosso. Davanti a voi un pallone. Undici metri dopo una porta larga sette metri. A difenderla Barthez, un pazzo da cui non sai mai cosa aspettarti. E tu sei lì, solo…. Sai che tutta una Nazione ti sta guardando.

E li senti tutti quegli sguardi, quelle emozioni, quel silenzio urlante. Da quando inizierai la rincorsa a quando toccherai il pallone passeranno pochi attimi. Poi tutto cambierà a seconda di dove andrà quel pallone. Cosa si poteva provare ad essere Fabio Grosso quel nove luglio? Non lo so, ma deve essere stato tragicamente esaltante.
Non lo vedo partire. Sono di spalle, sento solo il fischio dell’arbitro. Poi tutto è caos. Vengo abbracciato dai ragazzi della Protezione Civile, altri fotografi mi scuotono per le spalle, tra i reparti di Polizia e Carabinieri vedo agenti esultare, il Circo Massimo è una sola persona che salta, urla, si abbraccia, si bacia, sventola le bandiere tutto nello stesso tempo. Passa qualche minuto in cui lascio stare le foto e mi unisco alla festa generale.

Salto, cado, mi rialzo e poi scappo fuori, devo andare a documentare i festeggiamenti. Decido di andare verso piazza Venezia. Di corsa. Roma è completamente bloccata. Lungotevere è un fiume di macchine e motorini dai clacson urlanti, senza una meta precisa migliaia di persone vagano tra le strade. Arrivo a Piazza Venezia completamente invasa. Gli autobus dell’Atac sono stati abbandonati e presi d’assalto da tifosi che si arrampicano sui tetti, via del Corso è una nuvola tricolore, Piazza del Popolo non si riesce a vedere per i fumogeni. Le fontane sono colme di ragazzi che schizzano i passanti, i monumenti secolari si uniscono alla festa. Incontro persone di ogni tipo, coppie, gruppi di ragazzi, signori anziani festanti, uomini soli che portano a spasso il cane con una bandiera in mano. Tutti si salutano, si abbracciano, si esaltano.

Mi ritrovo preso da un gruppo che si vuole far fare delle foto, da altri che mi saltano sulle spalle gridando “Campioni del Mondo”. C’é qualche turista incredulo e a volte spaventato che guarda queste scene dai ristoranti. E’ la notte perfetta. Ma è notte appunto. Sono distrutto. Torno a Piazza Venezia e mi unisco, in una sorta di pic nic notturno, a dei ragazzi raggruppati nei giardini al lato del Vittoriano. Mi sdraio. Chiudo li occhi. Il rumore infernale di grida, macchine e trombette è come una ninna nanna. Ma non posso riposare. Potrei perdere qualche foto interessante. Saluto tutti e riparto direzione Colosseo.

Roma è il palcoscenico ideale per questi festeggiamenti.
Ma ormai è tardi, molti sono andati a casa, qualche irriducibile ancora passeggia sventolando il tricolore. Finalmente arrivo di nuovo al Circo Massimo, vuoto, solo gli addetti alle pulizie si muovono sotto le luci dei fari montati per l’occasione.

Ritorno alla macchina, sono passate tredici ore. Torno a casa stanco, ma non vado a dormire, scarico le foto, voglio vederle. Mi butto sul letto pensando a chi portare questo servizio, come impostarlo, immaginando di vederlo su qualche giornale. Alla fine resterà chiuso in un cassetto per anni, anzi, dato che parliamo di digitale, resterà chiuso in un hard disk, che forse è anche peggio. Spengo la luce e crollo.
Il giorno dopo esco per fare colazione al bar, non è cambiato nulla, siamo sempre nel 2006, abbiamo sempre gli stessi problemi, le stesse paure, eppure c’è qualcosa di diverso, di leggero. C’è un’aria sorridente. E’ solo una partita di calcio è vero, ma per un giorno, per uno stramaledettissimo giorno, nei bar, nei negozi, negli uffici, tutti, ma proprio tutti, ti salutano usando questa espressione “Buongiorno Campione del Mondo!”.

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