Cosa centra l’Abruzzo con Paperino?

Avete presente i personaggi che vivono a Paperopoli?

Bene. Prendiamone ad esempio due per semplificare un concetto ma anche uno stile di vita.

Due cugini, Paperino e Gastone. Ecco io sono Paperino.

Non dieci, o venti, o cento volte Paperino e una volta ogni tanto Gastone.

Io sono sempre stato Paperino.

A me la sfiga mi corre dietro col frustino. Ed anche in maniera sarcastica, se non addirittura comica.

Potrei fare mille di esempi, ma proprio come Paperino non demordo mai, ho una buona dose di rabbia repressa e sono il più simpatico di Paperopoli, ma sopratutto posso diventare Paperinik.

Definito il mio rapporto con l’universo, che ci servirà più tardi, posso lasciare questo preambolo e passare alla storia vera e propria.

Storia che si svolge diversi anni fa, durante uno dei miei primi lavori come fotografo.

Parlo di secoli passati, in cui si usava ancora la pellicola, tempi in cui la massima tecnologia era la scritta sul cellulare della città dove ti trovavi, insomma quegli anni dove c’era ancora la musica e gli uomini non usavano il toppino.

Avevo appena finito la scuola di fotografia, quando mi venne assegnato un lavoro sulle ridenti montagne abbruzzesi, in un paesino sperduto tra il nulla e il niente, dove ti facevi la stessa domanda della particella di sodio nell’acqua Lete.

Partii da Roma con la macchina carica di non so quante pellicole, l’attrezzatura e il necessario per sopravvivere, che consisteva in un maglione, una cassetta dei Guns n’ Roses e qualche paio di mutande. Non c’erano ancora i navigatori,  la strada te la dovevi fare,  finché eri sull’autostrada seguendo i cartelli, uscendo dall’autostrada seguendo l’intuito.

Alla fine, attraversando vallate, guadando fiumi, scalando vette aguzze, ma sopratutto chiedendo a chiunque vedevo in giro, arrivai all’azienda agricola.

Scesi dalla macchina facendo con le stesse movenze di Carlo Verdone nella parte di Pasquale Ametrano quando torna in Italia per votare. D’altronde sono un ragazzo fino.

Il posto era molto grande, con animali ovunque, cuccioli di maremmano che ti correvano tra i piedi e mucche che ti fissavano masticando.

C’erano molti edifici, tra questi individuai l’ufficio ed entrai. Qui dietro un schermo non piatto vidi la proprietaria, Emanuela Cozzi.

Il lavoro consisteva nel documentare la sua storia di imprenditrice, che, dopo essere tornata al suo paese che si stava spopolando, aveva creato un azienda agricola con alcune peculiarità. La prima era che le sue greggi praticavano la transumanza sulle vecchie vie usate dai pastori di un tempo.

La seconda, quella che più mi piaceva, era che faceva adottare le pecore.

In pratica potevi scegliere tra i suoi agnellini uno da adottare pagando una certa cifra. Per un anno avresti ricevuto i prodotti dell’azienda agricola. Poi, passato un anno, potevi scegliere se farti mandare l’agnellino oppure ricevere per un altro anno i prodotti biologici. Con l’adozione avevi diritto di dare il nome all’agnellino scelto, e se dopo un anno riesci a mangiare qualcuno a cui hai dato un nome sei sicuramente una persona orribile.

Ma lasciamo stare queste tematiche animaliste, che riprenderò più tardi.

L’iniziativa funzionò a tal punto che questa storia finì sul Times, in varie riveste internazionali e anche al Maurizio Costanzo Show.

Ero quindi pronto a fare un bel servizio anche io, senza avere la benché minima idea di cosa mi aspettasse.

Emanuela, indaffarata dietro a documenti e fascicoli, mi diede un occhiata, mi salutò velocemente, mi disse che la mia casa era quella in fondo alla strada e potevo iniziare quando volevo.

Perfetto.

Iniziare cosa?

Vedendola completamente presa dal suo lavoro andai a sistemarvi nella casetta, molto carina e spaziosa. Quindi preparai la macchina fotografica e tornai in ufficio.

La situazione era più calma, così le spiegai bene chi ero e lei mi disse come avremmo potuto organizzare le varie giornate.

Sarei rimasto li alcuni giorni, poi alle prime ore della domenica sarei andato all’alpeggio e avrei seguito i pastori tra le montagne fino all’azienda.

Avrei visto i dintorni, la fattoria, i processi di produzione ma sopratutto avrei giocato con un sacco di animali.

Emanuela è quella che si può definire una donna tosta, pragmatica, disponibile il giusto, senza troppe smancerie, come piace a me.

Il primo giorno girai per il paese, Anversa degli Abruzzi, e incontrai addirittura tre o quattro persone, che mi guardarono come uno che vede un Picasso per la prima volta.

Il paese è’ bello, ricco di storia ma povero di persone, quasi tutti si erano spostati nelle città, erano rimasti molte persone anziane, con le loro vecchie abitudini, le sedie fuori la porta di casa, il bar della piazza, lo scrutare da dietro le persiane. Tutto aveva un senso di immobilità, avremmo potuto essere anche nei primi dell’ottocento e non si sarebbe vista la differenza, a parte la mia macchina che passava per le vie sulle note di welcome to the jungle.

Tornato a alla fattoria, la sera incontrai il marito di Emanuela.

Come descriverlo?

Sembra che un pezzo del granito delle montagne intorno si fosse staccato e lo spirito di un orso marsicano le avesse dato vita.

Taciturno, fiero del suo paese e della sua appartenenza, dopo cena e un paio di bicchieri di vino mi disse “vieni”

Andai, non sapendo se sarei diventato una di quelle leggende tipo “…si dice che una volta qui venne un fotografo ma non se ne seppe più niente…”

Mi portò di notte a piedi nel paese, illuminato da una luce gialla, tra vicoli, salite, discese ripide tra i ciottoli, raccontandomi  storie fantastiche, descrivendomi ogni piccola parte, ogni porta, ogni finestra, ogni mattone del suo paese.

Ne era orgoglioso, e da taciturno divenne un fiume di parole, che uscivano da una bocca nascosta da una folta barba nera.

Io lo ascoltavo estasiato, immaginando i suoi racconti, sentendo un pò di malinconia nella sua voce.

Facemmo tardi, ma io sarei rimasto fino all’alba.

Il giorno dopo il tempo era brutto, c’era quella pioggia che a Roma chiamiamo gnagnarella, il mondo era grigio ma tanto non si vedeva perché  era tutto un banco di nebbia.

Per dare un pò di vivacità alla giornata uggiosa decisi di andare a vedere un paese abbandonato su una montagna vicino.

L’ultima parte probabilmente era da fare a dorso di mulo, ma il mulo in quel caso ero io.

Il paese era una fotografia tridimensionale del passato. Passando tra i vicoli deserti, con la nebbia e un silenzio assordante, mi sentivo piccolo eppure pieno di una strana energia.

Mangiai un panino sotto la pioggerella e poi me ne tornai sulla strada di quella che per qualche giorno sarebbe stata la mia casa.

Nei giorni seguenti andai a conoscere qualche artigiano del paese, girai i dintorni e scattai qualche foto al caseificio.

Finalmente arrivò il sabato notte.

Preparai lo zaino, un pò di acqua, un paio di panini, e con ancora il buio sui tetti mi incontrai con Emanuela, che a bordo della sua jeep mi porto all’alpeggio.

Mi aspettava una lunga giornata, sarei partito con il gregge alle prime luci dell’alba, per arrivare in all’azienda verso le cinque e mezzo di pomeriggio, dopo undici ore di cammino tra le montagne e le valli abruzzesi.

Arrivato in cima incontrai i pastori, due macedoni che non parlavano nulla che fosse vicino al comprensibile. Emanuela mi diceva che i macedoni sono tra i migliori pastori al mondo. Io pensavo che se stai quattro mesi solo senza elettricità in una casupola senza acqua calda probabilmente sei un ricercato che ha necessità di nascondersi dall’Interpool.

Saluto Emanuela e mi comincio a guardare intorno. Ma intorno c’e’ l’infinto.

Mi giro e un pastore esce con un agnellino appena nato, preso per una zampa, che belava…come un agnellino.

Ora qui ci sarebbe tutta la filippica sul fatto che vi mangiate l’abbacchio e dite “mmm…che buono…” ma il cuore di ammazzare un agnellino non l’avreste mai, ma la tralascio sennò diventò polemico mi limito a dire…no…non lo posso dire neanche questo.

Andiamo avanti.

La giornata inizia con un numero inverosimile di pecore e capre che escono dallo stazzo, i due pastori che le guidano giù per i monti, i maremmani che fanno la guardia confondendosi nel gregge, e io che mi guardo intorno e mi chiedo “ma che ci faccio qua!?!?”

Gia dopo poche ore fa un caldo estremo, e io potrei partecipare a miss maglietta bagnata con buone chance di vittoria.

I paesaggi sono stupendi, e me li godrei volentieri, se non fosse che camminare dietro un gregge significa letteralmente camminare su un tappeto di escrementi.

Per le prime due ore provo a non prenderli, poi mi arrendo, e affondo appieno nella natura.

Tra una discesa e una salita passiamo per un paese abbandonato dopo un terremoto, e qui troviamo una macchina, che viene presto circondata dalle pecore. E questo doveva era probabilmente un segno che non avevo percepito.

Ci fermiamo a mangiare sotto alcuni alberi, un po’ di formaggio i pastori, i panini io, e cominciamo una conversazione in una lingua sconosciuta, in cui non ho capito nulla, ma sorridevano e quindi qualche parola devo averla azzeccata.

In tutto questo panorama bucolico, ho tralasciato un piccolo particolare.

A migliaia di anni luce da dove era in quel momento, ossia a Roma, quella sera ci sarebbe stato il derby.

Il piano era semplice. Ore cinque e mezzo partenza dal nulla in direzione Roma. Breve sosta in una casa di appoggio per lasciare l’attrezzatura e il lavoro, direzione stadio, i biglietti non li avevo perchè entravamo in un altro modo che ora non è il caso di approfondire, ore nove sugli spalti a insultare il prossimo.

Ma mentre pensavo tutto questo ero su una montagna lontano dalla civiltà, con il tempo che passava e l’arrivo che non arrivava.

Ogni tanto chiedevo quanto mancasse, ma a parte l’immancabile “dopo quella montagna”,  che avevo sentito già cinque montagne prima, avevo capito che l’orario per due pastori macedoni non ha molto senso.

Cominciavo a essere un tantinello preoccupato.

Poi, mi accorsi che le pecore tendevano a fermarsi di continuo per mangiare, rallentando i miei progetti. E questo non potevo permetterlo.

Capì che c’era una sorta di capobranco, due o tre pecore in testa al gruppo, che quando avanzavano venivano seguite da tutti.

Astuto come una biro, mi misi dietro queste, e quando si fermavano partiva un calcetto, leggero, e dopo un breve “beeeeee” ripartiva tutto il gruppo.

Questa cosa andò avanti per un bel pò, fino a quando su uno spiazzo non incontrai un personaggio paricolare.

Era una guida forestale, gli spiegai la situazione, che dovevo arrivare all’azienda agricola il prima possibile e lui mi rispose “ti ci porto io, con la macchina”.

Nunzio vobis gaudium magnum!

Salutai i pastori e andai dal mio eroe.

Mentre ci incamminavamo si ferma e mi dice “li c’e’ la strada” poi si ferma si gira dall’altra parte “ma passiamo di la che è più bello…ce la fai?”

Avrei risposto “certo” anche se mi avesse chiesto se sapevo ballare come la Fracci.

Peccato che l’altra strada in realtà non esisteva, ed era una discesa a picco nelle gole del saggitario attraverso rocce e alberi, con questo pazzo che correva come un daino e io che ruzzolavo imprecando con tutta l’attrezzatura sulle spalle.

Dopo non so quando arriviamo al parcheggio in fondo alla valle, sono sudato e appiccicoso come una seppia appena pescata. Ma vedo una macchina. Una station wagon. La mia salvezza. Olimpico arrivo.

Ma mentre sorrido, vedo una famiglia che va verso la macchina in questione e ci sale. Come Fantozzi sul Savoia Marchetti, mi accorgo che la macchina della guida pazza è dietro. E non è una macchina.

E’ una Citroen Mehari, senza porte, senza parabrezza e guidata da uno dei cugini Duke di Hazzard.

Salgo pensando che peggio non può andare, invece con questa specie di bara volante il tizio si butta a tavoletta per strade sterrate e dossi, con me che con una mano reggo lo zaino e con l’altra reggo me stesso per non essere sbalzato fuori, il tutto con l’aria gelata che in combinazione con il mio sudore mi provocherà probabilmente una leggerissima problematica di salute.

Sono comunque verso la mia meta. Ce la posso fare. Ormai non mi ferma più nessuno, se non ci sfranghiamo contro un albero.

Ma poi, come sempre, arriva il mio momento Paperino.

Una sola strada per raggiungere la fattoria. Era libera. Purtroppo il gregge che seguivo, per ragioni sconosciute, ha deviato, e ora mi ritrovo con la macchina a passo di pecora dietro quelle stesse pecore che avevo preso a calcetti poco prima.

Rido. Ormai tutto è perduto. Sentirò la partita per radio.

Ma quando tutto sembra perduto, con uno scatto repentino, e il rischio della vita, il tizio riesce a scartare le pecore, le passa di lato tra le parolacce in macedone dei pastori, e mi porta sano e distrutto alla mia macchina.

Saluto tutti velocemente e mi catapulto sulla strada. Ce la posso ancora fare.

I paesaggi bucoloci lasciano il passo all’autostrada, la mie Fiesta SX nera, tamarra come pochi, sfreccia sull’asfalto.

Entrerò a partita iniziata, ma va bene uguale.

Già pregusto il cornetto preso dal bibitaro per fermare la fame tossica.

Dallo specchietto retrovisore posso vedere il mio sorriso di chi ce l’ha fatta.

Ma il momento Paperino è come il Natale. Quando arriva arriva.

Blocco all’ingresso del casello per entrare a Roma.

Mi fermo.

Parcheggio la macchina all’autogrill, prendo una birretta e un icaro, alzo la radio e abbasso lo schienale.

La partita la sentirò li. Finirà uno pari.

E con ancora il fiatone per le corse fatte per arrivare in tempo, guardando il traffico e la gente sclerare per il blocco al casello, ripenso al paese abbandonato, alle pecore, ai pastori macedoni, alle persone sedute fuori le porte del paese, all’agnellino appena nato, alla giagnarella e ai racconti di una notte abruzzese.

E penso che non è poi così male essere Paperino.

E sorrido.

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