La storia che sto per raccontarvi oggi è molto paurosa. Talmente paurosa che ho scattato pochissime foto.
Inoltre, per non tediarvi troppo a leggere, la dividerò in due parti, la prima oggi e la seconda…in un altroquando.
Ma procediamo con ordine.
Era la vigilia del mio compleanno, e come tutte le persone normali, pensai di passarlo visitando un Sacro Bosco con tomba e un manicomio abbandonato.
La sera prima preparai l’occorente per il viaggio, attrezzatura fotografica, tenda, sacco a pelo, torcia, armi medioevali, incatesimi contro la possessione, il tutto sotto lo sguardo severo ma giusto della mia ragazza, che l’indomani mi salutava dicendomi “se te fai male te ce do il resto”.
Si parte, direzione Acquapendente, più precisamente Torre Alfina. Chiaramenente prendo la strada panoramica, più lunga e con più autovelox, ma con gli autogrill rustici, quelli che come insegna hanno una anonima scritta Bar in bianco. Solitamente sono gestiti da una famiglia del terror, che ti propone qualunque cosa che prima potesse correre, o saltare, o comunque respirare. Quei posti color legno scuro, dalle pareti gialle, dove se chiedi qualcosa di vegetariano ti danno il panino con la bresaola, dove trovi sempre un reduce Garabaldino che alle sette e mezzo si fa lo Stravecchio, dove il tempo è immobile, come la prima pagina del Corriere dello Sport del 1982 con la scritta “Eroici” appeso dietro la cassa.
Luoghi onorici, che pensi scompaiano dietro di te quando vai via, per riapparire all’arrivo di un nuovo cliente. Ma la strada è lunga, bisogna andare, prendo l’unica cosa che posso, ossia un caffè, e risalgo in macchina. Ad accogliermi la playlist da viaggio, che spazia dai Pantera a Dolce Remì passando per Gianni Togni.
La strada corre veloce, ma neanche tanto che come detto qui è pieno di autovelox, quindi tra un “e guardo il mondo da un oblò” del Gianni e un “Fuck you, I won’t do what you tell me” dei Rage Agaist the Machine, arrivo a Torre Alfina. Costeggio il meraviglioso Castello, uno dei più belli d’Italia e mi inoltro.
Ma cosa ha di così interessante questo bosco, cioè più di Villa Pamphili dico?
Vi rispondo con tre parole: la bellezza, la storia e la leggenda. Facciamo quattro, ossia il fatto che si trova sulla strada del manicomio abbandonato e mi veniva di mano.
Scendendo dal Castello c’e’ un viottolo seminascosto vicino a un pollaio, seguendolo si entra nella magia del Bosco del Sasseto.
Impossibile da descrivere a parole, ne servirebbero di nuove direttamente dal mondo delle fate. Come è impossibile fare delle foto che ne mostrino l’essenza.
Ho provato in tutti i modi, cercardo inquadrature, aprendo diaframmi, dilatando i tempi ma nulla. Sembra che il bosco non voglia farsi rubare l’anima dalla macchina fotografica. Entraci e sentirai strane emozioni.
Le stesse emozioni di colui alla fine dell’800 lo amò a tal punto da farlo diventare la sua eterna dimora.
Il castello, il borgo e l’incantevole bosco vennero acquistati da un ricco banchiere francese di origini ebraiche, il Conte Edoardo Cahen, nel 1880.
Detto così può sembrare poca cosa, ma secondo molti storici fu proprio grazie al padre Joseph Cahen se oggi l’Italia è unita. I Cahen infatti furono l’unica famiglia di banchieri europei a finaziare economicamente il Risorgimento Italiano, e per questo Vittorio Emanuele II lo nominò Conte.
Il castello rimase alla famiglia Cahen fino all’emanazioni delle leggi razziali, quando l’ultimo conte dovette fuggire in Svizzera e, non avendo eredi, lasciò il castello al suo maggiordomo, quindi per strani giochi del destino, divenne proprietà di Luciano Gaucci. Per alcuni anni tra le mura di questo castello, furono conclusi molti importanti affari del calcio italiano, e chissà cos’altro.
Ma torniamo al conte Edoardo, che ristrutturò il castello e rimodellò la selva, creando sentieri e muretti a secco che andavano a fondersi col bosco stesso. E fece un gran lavoro, dato che il National Geographic lo descrive con queste parole “Il Sasseto non è un bosco qualsiasi. Basta entrare sotto la sua volta cupa, fare pochi passi tra i grandi tronchi centenari per capire subito che qui la natura esprime una forza antica e misteriosa.”
Oltre alla meraviglia della sua vegetazione, il bosco nasconde anche una sorpresa. Camminando senza metà tra gli alberi, se si è fortunati, ci si può imbattere in una radura, fino a trovarsi al cospetto di una meravigliosa tomba gotica. Questa è l’ultima dimora di quello che era divenuto il Marchese Edoardo Cahen.
Il Marchese amava a tal punto la sua selva che volle riposarci per sempre, in pace.
Non sapeva purtroppo che col passare degli anni l’educazione e il rispetto andassero via via scemando. La tomba fu violata nel 2011 e il corpo del Marchese lasciato alla luce del sole e alle intemperie del tempo. Così qualche anno dopo si decise di porre una lastra di ferro a difesa del Marchese. Ma a volte anche questa accortezza viene meno, e può capitare di ritrovarsi al cospetto dei resti dell’uomo, che altro non chiedeva che di essere lasciato in pace nel suo bosco.
Se aveste voglia di scoprire questa meraviglia, vi consiglio di andarci subito dopo un temporale, quando il muschio si fa verde smeraldo e la nebbia scende tra gli alberi. Rimarrete senza parole.
Dopo un bel girovagare trovo la tomba. E’ stupenda. Assurda in quel luogo, eppure connessa a tutto quello che la circonda.
Mi aggiro incantanto, vado verso l’entrata per salutare e ringraziare il Marchese. E’ tutto perfetto. Troppo. Mi giro e scorgo un ragazzo tra gli alberi che prepara la sua attrezzatura. Lo sapevo. Un fotografo. Odio i fotografi.
Il mio grado di socialità è pari al Minotauro di Cnosso, e in un attimo il sorriso lascia il posto a un’espressione di stucchevole fastidio.
Devo dire che a volte mi sono antipatico da solo.
Stizzito faccio un mezzo gesto di saluto, pensando speriamo se ne vada presto.
Non vedo l’ora di fare qualche foto, nonostante il fastidioso antagonista preparo tutto, prendo il cavalletto, i filtri, preparo la macchina e…tragedia. Ora solo i fotografi capiranno, mi si era rotto il rilascio di un tubo di prolunga attaccato alla macchina. In pratica vuol dire niente foto. Mi serve assolutamente un cacciavite. In borsa non ce l’ho, ho di tutto, corde con rampino tipo Batman, fornello da campo Folgore ’95, macete, stellette ninja, passamontagna, ho tutto per la guerriglia urbana ma non ho un cacciavite. Sto nel panico, non so cosa fare, poi mi illumino. Il mio caro amico fotografo che ho visto nel bosco. Quel bravo e generoso ragazzo che si aggirava discretamente intorno a me.
Lo raggiungo e con voce che è un misto di mestizia e speranza dico “Ciao, scusa se ti disturbo, non è che per caso avresti un cacciavite?”
Passano pochi istanti che a me sembrano eterni, si gira assumendo ai miei occhi le sembianze di un Dio greco e mi risponde “A spacco o a stella?”
Annuncium vobis gaudium magnum. Habemus cacciavite.
Oltre a risolvermi il problema mi comincia a raccontare tutta la storia del posto, dato che è di li e questo in effetti fa di me un intruso rompiscatole, ma lui è gentilissimo, mi indica anche alcuni sentieri. Niente, mi sento una brutta persona. Ci scambiamo i contatti social, e devo dire, dopo aver visto le sue foto, che è anche molto bravo. Quel giorno nel Sacro bosco ho imparato una importante lezione di vita. Ovunque vai porta sempre un cacciavite a spacco e uno a stella. Faccio le mie foto, saluto il mio salvatore e girovago un altro pò. Fuori dal bosco, lungo una strada poco battuta, scorgo una casa abbandonata. La classica casa che vedi nei Bmovie horror americani. Ogni mattone, ogni finestra, ogni tegola mi dicevano “Non entrare…Non entrare…” Solo che io nelle cuffiette avevo Alan Sorrenti che mi diceva ” Dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me” e non li sentivo.
Quindi sono entrato per qualche foto, ho immaginato qualche storia di fantasmi e sono andato via. Questo piccolo aneddoto sembrerà superfluo, ma sarà essenziale nella seconda parte del racconto. Comincia a farsi tardi. Pioviggina. Risalgo in macchina lasciandomi il castello alle spalle.
La macchina sfreccia, rispettando i limiti, nella notte. La prima giornata è stata fantastica, ora devo trovare un posto per mangiare e dormire. Nel buio appare Orvieto.
Metto la freccia, esco dalla statale e mi dirigo verso calde e accoglienti luci. Non so cosa mi aspetterà stanotte, e neanche domani. Ma sono felice.
Nella prossima puntata vi racconterò l’ultima parte di questo viaggio, sarà paurosissima, quindi prima regola: mai esporlo alla luce forte, seconda regola: mai bagnarlo né dargli acqua da bere, terza regola: mai nutrirlo dopo la mezzanotte.
Forse è tempo che parcheggi.
A presto con la seconda parte!!!!