L’ultima Corsa

Secondo voi dove potrebbe iniziare questa storia?
“Signor presidente, e dove vuole che sia cominciato il pasticcio? A Tor di Valle, regolare! All’ippodromo, nell’inferno del gioco delle corse. Signor presidente, no, dico, lei ce l’ha presente il mondo delle corse? Sarebbe a dire tutta quella gran caciara de gente che si raduna negli ippodromi per scommettere sui cavalli, ce l’ha presente? Matti! Un mondo de matti, roba da manicomio signor Presidente!”

Oggi è solo un nome sul giornale, ma per più di cinquant’anni questo mondo di matti è stato la casa, il rifugio, la rovina e la spensieratezza di tante persone.
E oggi vi racconterò alcune delle sue infinite storie.
Ma prima di iniziare il nostro giro è d’obbligo fermarsi al bar della tribuna per prendersi un caffè da Ciccio, sempre se Ciccio ha voglia di farvelo il caffè… un giorno per averlo chiesto una volta di troppo mi sono ritrovato con il braccetto della macchina del caffè in mano e lui che mi diceva “C’hai fretta? Tiè! Fattelo da solo…anzi fammene uno pure a me”…e io per fargli capire che sono una persona matura aprivo le bustine di zucchero e le svuotavo sul bancone.
Il caffè non era buono, ma il sorriso di Ciccio lo faceva diventare ottimo.
Dal bar iniziava la lunghissima fila degli sportelli delle casse, il totalizzatore, che con i suoi vetri divideva quelli che si impoverivano da quelli che lavorando facevano guadagnare i proprietari.
A Tor di Valle non si vinceva mai, anche quando si vinceva. Ma  questo non era importante quanto avere un motivo per cui si era perso. Potevi perdere centomila lire su un cavallo, ma se c’era una motivazione, tipo “non ha preso la schiena”, oppure “gli ha dato fastidio il vento”, o come si diceva in gergo “quello c’ha du mano sinistre” avevi di che parlare per tutta la sera e tanto bastava.


Nella grande sala si poteva incontrare ogni sfaccettatura del genere umano. Alle casse gli aristocratici facevano la fila dietro quelli senza un soldo, quelli senza un soldo facevano la fila dietro i criminali, e i criminali facevano la fila dietro le ragazze che venivano a giocare per la prima volta chiedendo suggerimenti al terminalista di turno che sfoderava un sorriso e una disponibilità inimmaginabili. Altri, i terminalisti che più ammiravo, la fila la creavano perché stavano col giornale a studiare i cavalli da giocarsi. Prendendo le scale mobili o l’ascensore si saliva in tribuna superiore, qui i terminali erano meno ma si poteva vedere tutta la pista e le sgambature dei cavalli. Si può dire che la tribuna superiore fosse per gli esperti. E proprio qui una sera, un giovane esperto terminalista, mise in scena un pezzo della commedia dell’arte italiana. Girava in tribuna una bella signora, di quelle difficili da non notare sia per fisicità che per vestiario, che vedendo questo ragazzo cominciò a chiedergli qualche dritta. Lui chiaramente le diede un cavallo che vinse, e quando la signora tornò a riscuotere la vincita, in maniera audace lui le disse “Dopo le corse andiamo a magiare pesce insieme?” La signora, sorridendo, rispose “a regazì, ma te pare che io vengo a mangià il pesce co te?”
Per nulla abbattuto, la corsa successiva il ragazzo ebbe la fortuna di prendere una trio da trecentomila lire. Prese tutti i soldi dalla cassa, li arrotolò in maniera astuta, e con fare sicuro andò dalla signora. La fermò e tirando fuori tutto il malloppo prese cinquantamila lire e dandogliele disse “Tieni, intanto va a ordinà l’antipasto” e se ne andò. Alla signora si illuminarono gli occhi, ma lui fece per andarsene senza dire nulla…furono cinquantamila lire buttate? Assolutamente no, furono il giusto prezzo per una bella storia da raccontare.


Certo non tutte erano storie divertenti. Tor di Valle era anche il centro della malavita a Roma, quella vera, quella che faceva paura. Il gioco clandestino era gestito da tale Franco Nicolini detto Franchino il criminale. Una sera durante le corse l’altoparlante fece un annuncio chiamando il signor Dellamorte all’uscita. Era il segnale. Sette uomini seguirono e uccisero Franchino davanti al parcheggio. Era il primo delitto eclatante di quella che sarebbe diventata la banda della magliana. Per diversi anni un piccolo mazzo di fiori indicava il punto dell’accaduto, ma ormai è una storia che ricordano in pochi.
Lasciando le tribune e ci si poteva spostare verso le scuderie, dalla parte opposta della pista. E qui si entrava in un altro mondo ancora.
L’unica certezza è Ciccio, che nel frattempo si è spostato al bar delle scuderie e che vedendomi mi apostrofa in modo che qui non è il caso di ricordare, quindi mi prepara una pizza, o un panino e il caffè, e quando vado a pagare prende i soldi, fa finta di metterli nel cassetto e me li ridà pari e patti, e ad ogni mia recriminazione mi manda a quel paese, diciamo alla romana.

L’ambiente qui era diverso, molti erano in tenuta da driver, con giubbe e caschi colorati, e ci si accorgeva subito che l’atmosfera poteva cambiare in un attimo. Bastava una scintilla al rientro da una corsa, una parola di troppo in gara, un sorriso ambiguo e in un attimo tutto degenerava, ma giusto il tempo di entrare in pista per un altra corsa e tutto tornava a posto, il più delle volte.  Questo mondo di matti  ti dava una sicurezza, e cioè che ti poteva andare tutto storto, ma ci sarà sempre un altra corsa in cui sperare, e poi un altra, e un altra ancora, e a pensarci bene non è poi così male.
L’importante è non chiedere cavalli a Ciccio, lui vi darà sempre il numero 4, a prescindere. Non sapendo neanche se ha tutte le zampe. E se poi arriva e non lo hai giocato meglio andare via e non farsi vedere per qualche corsa.
Dalla parte delle scuderie la fanno da padroni i cavalli, che passeggiano, vengono lavati, preparati con i finimenti per le gare, in un mondo tutto loro, che a volte nasconde storie incredibili.

Come quella di Udesso.
Udesso era un cavallo, come si dice, “bono solo pe l’ammazzatora”, un cavallo che da quando aveva cominciato a correre non aveva mai vinto, o meglio, non era mai riuscito a finire una corsa. Una sera, anche se non lo sapeva, Udesso stava per correre la sua ultima gara, il proprietario aveva chiamato “chi” lo doveva venire a prendere, già pronto fuori della pista con il camion aperto. Pagava 980 volte la posta al totalizzatore. Ossia mettendoci un euro se ne vincevano 980.
Udesso parte e da un capo all’altro della pista rimane in testa e vince. In quella corsa non vinse nessuno degli scommettitori, ma vinse Udesso, perché a fine gara il proprietario non se la sentì di farlo salire su quel camion e lo riportò in scuderia.
Questa parte dell’ippodromo era una piccola città, con bar, ristoranti, barbiere, pompa di benzina, campo di calcetto e quelle che venivano chiamate “le stanzette”, dove vivevano alcuni altieri e uomini di scuderia. Dopo la chiusura dell’ippodromo girando per le varie stanze si poteva trovare di tutto, trofei, motociclette, pistole, tutto abbandonato da un momento all’altro, come se le persone fossero semplicemente scomparse nel breve lasso di una corsa.


Durante i Gran Premi l’ippodromo si vestiva a festa, e le scuderie erano invase da guidatori di ogni nazione. Durante il Mondiale del Trotto era indispensabile avere qualcuno che parlasse inglese e francese. Bisognava infatti tradurre le disposizioni di gara dei guidatori italiani e riferirle ai driver stranieri. Il problema sorgeva quando bisognava tradurre dal palermitano stretto all’inglese per un finlandese. Morale della favola il driver di palermo prende da parte il finlandese e gli spiega cosa fare, in puro dialetto siculo. Il finlandese vince facile facendo l’esatto contrario. La magia delle corse dei cavalli.
Girando intorno all’ufficio dei commissari si tornava in tribuna, ma solo per passare tramite un lungo e ampio corridoio alla zona del ristorante.
Questa era la zona vip, qui sono passati negli anni Alberto Sordi, Andreotti, Gaucci, Proietti, Francesco Totti e molti altri.
Era la tribuna dei proprietari, gente che giocava dal tavolo, sorseggiando vino. Si poteva entrare solo in giacca, e le puntate erano decisamente alte.
Per i tavoli giravano le signorine che raccoglievano le scommesse, e una volta per un disguido mi toccò fare la “signorina” anche a me. Raccolsi pochissime scommesse.


Nel tempo la clientela del ristorante cambiò radicalmente, tanto che una volta mi arrivò una telefonata di Ciccio che mi disse “ma che succede al ristorante?…Qui dalle scuderie si vedono volare delle sedie…” Il tempo di arrivare per vedere tutto il personale terrorizzato mentre i due contendenti avevano già fatto pace e sceglievano insieme i cavalli della corsa successiva.
Ma al ristorante c’era anche spazio per delle storie d’amore…chiaramente clandestino.
Immaginate la scena, un uomo distinto seduto a tavola con una bella ragazza straniera. Sorrisi, vino e scommesse rendono l’atmosfera più confortevole e rassicurante del dovuto. Ad un tratto squilla il telefono e l’uomo risponde, con voce sicura dice di trovarsi a lavoro e quindi chiude la conversazione. Purtroppo la troppa sicurezza non lo fa accorgere che mentre parlava in sottofondo si sentiva lo speaker che annunciava i cavalli partenti. Di li a poco sale una signorina, la figlia, che con pacatezza ed eleganza tira una cascata al padre e rovescia tutto il vino nei piatti, etichettando la ragazza straniera in modo oltremodo colorito.
Scene di ordinaria follia, che però in quel luogo assumevano sempre  contorni di romanticismo surreale.


Perché all’ippodromo il tempo era scandito dal suono della campana del giudice di partenza, otto corse in cui rinchiudere tutta una vita, tante storie che non si possono raccontare in questo breve spazio di tempo.
Poteva capitare di vedere terminalisti dormire sotto la cassa, durante il lavoro, perché avevano fatto la notte da qualche altra parte, oppure accompagnare qualcuno a vendere la macchina perché il giorno prima aveva perso tutto all’ultima corsa, o anche vedere un ragazzo piangere sotto il televisore dicendo “perché m’hai fatto questo?” e sapere che aveva messo tre milioni su un cavallo che aveva rotto in partenza.


Oggi l’ippodromo è morto, silenzioso, un fantasma di cemento che vive solo delle sue tante storie. Io ne ho scritta qualcuna, magari un giorno ne scriverò altre, ma oggi sentivo il bisogno di scrivere, di scrivere perché Ciccio non mi farà più il caffè, non mi manderà più a quel paese, non mi darà più il 4 vincente ad ogni corsa. Oggi Davide, ma lui voleva essere chiamato Ciccio, se né andato.

Se né andato a fare caffè cattivi da un altra parte, a fare sorrisi che riempiono il cuore da un altra parte…

Ciao Ciccio, ciao amico mio e grazie…e solo per te…Forza Roma.

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